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La corsa alla creazione di peperoncini sempre più piccanti è uno dei trend attualmente più in voga nell’ambito della food culture estrema. Una passione che coinvolge migliaia di agronomi – professionisti e dilettanti – in tutto il mondo, e che non cessa minimamente di produrre novità sempre più “infuocate”. Vale a dire peperoncini sempre più piccanti, ormai ben oltre i limiti dell’edibile, almeno al naturale.
Si tratta infatti di prodotti pensati perlopiù per entrare nel Guinness dei Primati, oppure per essere sottoposti al vaglio di quei temerari che, su YouTube o in specifici programmi televisivi, si cimentano con una piccantezza il più delle volte superiore a ogni soglia di umana sopportazione. Per poi scontare tanta tracotanza con atroci dolori e contorcimenti, regolarmente documentati davanti a una videocamera: basta fare un rapido giro in rete per capire di cosa parliamo.
Ma è davvero tutto qui? Questi peperoncini sono realmente immangiabili? E se invece, dosandoli con cautela, fossero in grado di speziare i nostri piatti con aromi tanto piacevoli quanto inusuali? Alcuni di questi peperoncini dispongono in effetti di un bouquet organolettico estremamente composito e gradevole, tuttavia soffocato dalla piccantezza estrema. E se si riuscisse ad attenuare quest’ultima per fare emergere tutti i sapori e i profumi che questi prodotti possono offrire? Di sicuro anche molte cucine professionali potrebbero trarne giovamento.
La Scala di Scoville
Cerchiamo di vederci più chiaro. Intanto specifichiamo che la piccantezza del peperoncino ha una sua specifica unità di misura, lo Scoville Heat Unit (SHU), e una propria gradazione sancita dalla Scala di Scoville. Entrambi i nomi fanno riferimento a Wilbur Scoville, un chimico statunitense che all’inizio del Ventesimo secolo ideò un sistema per misurare la piccantezza dei cibi, in particolare del peperoncino.
Scoville attribuì alla capsaicina pura (la sostanza presente, in misura variabile a seconda dei punti di vista, nei peperoncini che provoca la sensazione di bruciore) un valore arbitrario di 16.000.000 SHU: pertanto, a seconda della concentrazione di capsaicina al suo interno, un peperoncino veniva definito e catalogato in base al suo grado di piccantezza.
Per offrire un parametro di riferimento più familiare alle nostre latitudini, si tenga in considerazione che il peperoncino calabrese, quello comunemente utilizzato per preparare la nduja, ha un valore di piccantezza di 15.000 SHU.
Come utilizzare un peperoncino da record
Per riuscire a utilizzare in cucina un peperoncino il cui valore in SHU è così elevato da appiattire ogni altro sapore sotto una colata lavica, l’unica possibilità è diluirne gli effetti. Ad esempio, realizzando un olio, una conserva o una marmellata piccanti in cui il rapporto tra il peperoncino e la materia prima che dovrebbe recepirne e assorbirne la piccantezza sia decisamente sproporzionato a vantaggio di quest’ultima. Un paio di Bhut Jolokia – non di più – dentro un barile d’olio, ad esempio, dovrebbero conferire al liquido un giusto grado di piccantezza senza soverchiare il notevole bouquet aromatico del peperoncino.
Ciò precisato, occupiamoci ora dei maggiori extreme chili peppers attualmente in commercio, cercando di sviscerarne le principali caratteristiche organolettiche e al tempo stesso provando a capire come utilizzarli. Precisiamo che escludiamo da questa disamina i primi due peperoncini attualmente in testa alla classifica di piccantezza, lo statunitense Pepper X (nome provvisorio, 3.180.000 SHU) e il britannico Dragon’s Breath (2.480.000 SHU), in quanto non ancora regolarmente commercializzati e in buona misura sconosciuti.
Carolina Reaper: la dolcezza sotto il fuoco
Creato da Ed Currie, un agronomo della South Carolina – in seguito responsabile anche della creazione del già citato Pepper X –, questo peperoncino dall’aspetto grinzoso e appuntito è stato per circa tre anni il detentore del primato di piccantezza: gli esemplari più estremi raggiungono picchi di 2.200.000 SHU. Un macabro quanto spiritoso particolare: reaper, in inglese, vuol dire mietitore o mietitrice, con chiaro riferimento alla figura del Triste Mietitore. Come a voler dire: si tratta di un peperoncino mortale. Un’esagerazione ovviamente, tuttavia sembrerebbe che gli operai impiegati per il suo confezionamento indossino due paia di guanti di lattice uno sopra l’altro, per evitare di ustionarsi le mani.
Ciò malgrado, se si riesce a diradare l’offuscamento sensoriale dato dall’alta concentrazione di capsaicina, il Carolina Reaper rivela un bouquet organolettico molto ampio, con sentori dolci di vaniglia, cannella e cioccolato e altri fruttati di fragola e ciliegia. L’ideale per essere incluso in marmellate e confetture, giocando anche sui contrasti: ad esempio con agrumi o frutti di bosco.
Trinidad Scorpion: dai Caraibi con furore
Come suggerisce il nome, il Trinidad Scorpion ha origini caraibiche, ma si è diffuso rapidamente soprattutto in America Centrale. Il riferimento allo scorpione deriva dalla punta della bacca, lunga e appuntita. Esistono due varietà di Trinidad Scorpion: il Moruga e il Butch Taylor. Entrambi hanno un bouquet organolettico molto simile e lo stesso valore in SHU (circa 2.000.000).
Caratteristica peculiare del Trinidad Scorpion è il tardivo affiorare della piccantezza. Si tratta, in questo senso, di un peperoncino ingannevole, che dapprima sollecita il palato con una soave dolcezza e successivamente lo “punisce” con un’esplosione infuocata. La prima parte rivela sentori di peperone dolce e vaghi richiami di frutta esotica, che lo rendono adatto al confezionamento di oli e conserve di pesce (alici, aringhe, sgombri).
Bhut Jolioka: il peperoncino più speziato del mondo
Proveniente dall’India Orientale, questo peperoncino ha un nome decisamente significativo: in assamese – il dialetto della regione di provenienza della cultivar – Bhut Jolioka significa “peperoncino serpente”, in ragione della sua forma allungata e irregolare. Nei paesi di lingua inglese è conosciuto anche come Ghost Chili.
Malgrado l’alto grado di piccantezza – più di 1.000.000 SHU –, il Bhut Jolioka è uno dei peperoncini più aromatici e ricchi di sentori che possano essere reperiti sul mercato. Al gusto, esso rivela sentori di cannella, cumino, coriandolo, pepe e altre spezie tipicamente indiane. Per questo motivo, può essere un’aggiunta valida in varietà di curry particolarmente “roventi”, così come in chutney di frutta e mostarde. In India, è molto utilizzato per la preparazione di oli, salse di pomodoro e persino di barre di cioccolato.
Queste sono solo alcune delle possibilità gastronomiche che questi peperoncini “estremi” offrono ai cuochi – e soprattutto ai commensali – più temerari. Ma lavorando di fino su dosaggi e combinazioni di ingredienti si potranno trovare ulteriori abbinamenti, in grado di offrire nuove nuances di aromi e di sapori. La parola, a questo punto, passa agli chef.